Complice il fuoco
Enrico Castellani

Da quando hanno iniziato ad utilizzare la tela, gli artisti fanno i conti con la sua anima di stoffa, trama e ordito, da esaltare o annullare a forza di gesso e colla o altri stratagemmi. La tela, però, anche se trattata, continua a serbare in sé un’opacità assorbente, forse perché è proprio quella tessitura la vera anima del quadro, la sua stessa natura, insieme elastica e accogliente che Castellani ha sfruttato per disseminare i suoi quadri di quelli che lui stesso definisce una serie di “elementi a doppia curvatura e ad elementi ripetuti. Un succedersi di punti in rilievo e di punti in depressione”.

Un’analoga qualità, resa da una differente sostanza, si manifesta anche nella serie degli otto piatti realizzati dal maestro per conto di un collezionista. Questi piatti, gli unici a essere firmati dall’artista, sono stati generosamente concessi in prestito per la mostra realizzata nei prestigiosi spazi dell’Azienda Cancellotti di Perugia.

Guardando quei piatti immagino Castellani mentre maneggia l’argilla, adagiandola su delle specie di letti da fachiro miniaturizzati simili in tutto, alle strutture usate nei suoi quadri, seguendo gli stessi ritmi ordinati, a formare le sue perfette geometrie animate di luci e ombre. In tal modo, l’argilla cotta ad alte temperature dà corpo ad una variante cristallizzata ed immutabile delle sue monocrome sinfonie di punti su tela.
La ritmica e algida bellezza di tali strutture predispone alla contemplazione, ma la loro potente malia non potrebbe aver luogo senza un sostegno reale, senza un’ossatura nascosta dietro alla superficie. Chissà quanta maestria è stata necessaria per creare quell’articolato sistema di strutture, quelle solide impalcature simili a macchinerie teatrali, di legno e chiodi? Grazie alle loro sporgenze e rientranze, le tele prendono corpo, diventando geometriche sculture, apparizioni a rilievo che massaggiano la tela, andando incontro all’aria e sporgendosi verso gli sguardi.

Ha ragione Oscar Wilde quando, con sottile ironia, osserva che “la naturalezza è una posa difficile da mantenere”. E chissà quante difficoltà deve aver affrontato Castellani per orchestrare i suoi austeri bassorilievi su tela, quelle ritmiche astrazioni puntiniste. Ottenere quelle “pitture oggetto monocrome”, come le ha definite Gillo Dorfles, di certo ha richiesto una grande perizia manuale. Le sue strutture vestite di tela monocroma infatti, sono come melodie visuali in cui si realizza il difficile compito di annullare il gesto pittorico e qualsivoglia forma di rappresentazione. Deve essere stato davvero complicato creare quelle forme talmente astratte che, tra pittura e scultura, non sanno da che parte stare.

Lo stesso effetto visivo, lo stesso distacco dalla cosa, inteso come forma elevata di astrazione dall’oggetto in sé, Castellani lo ha ottenuto utilizzando la ceramica. I suoi piatti, una volta ammantati di fuoco, mutano la loro struttura, perdono contatto con se stessi e con i gesti umani che ne hanno consentito la creazione. Proiettati nell’altrove del fuoco, essi subiscono una profonda metamorfosi, diventando più duri e più fragili allo stesso tempo.
Per ironia della sorte, o della storia, non è facile stabilire quando nei piatti di ceramica abbia preso il sopravvento l’aspetto figurale o quello plastico. Le opere di Castellani non fanno altro che alimentare questa ambiguità. Una cosa è certa: continuiamo facilmente a considerare un piatto come un oggetto d’uso, giacché capita spesso che, nel mondo dell’arte, la sua natura di cosa possa dar adito a sommarie generalizzazioni. Così, gli spettatori fedeli alle apparenze affermano spesso con sicumera, sostenuta dall’evidente tautologia visiva, che un piatto è un piatto, non un’opera d’arte ma poco più di una stoviglia. Il fatto è che su un piatto di Castellani nessuno potrebbe, né d’altro canto vorrebbe, mangiare, neanche nel tentativo lucidamente dissacrante di profanare il suo lattiginoso candore.

E’ ovvio dunque, anche senza compiere pericolose incursioni nel campo dell’estetica, che, solo privando l’oggetto della sua funzione d’uso, esso può sfuggire alla sua quotidianità di cosa per elevarsi, in quanto immagine, fino allo spazio dell’arte. Non c’è nemmeno bisogno di scomodare il ready-made duchampiano, perché, in tempi non sospetti, almeno dal Medioevo in avanti, in alcuni luoghi ben distribuiti per tutt’Italia (anche qui vicino, a Deruta), svariati artisti hanno realizzato dei “piatti da pompa o da parata”, scendendo a patti con il fuoco e le sue regole.
Anche i piatti di Castellani sono stati fatti in una di quelle antiche manifatture. Da secoli infatti si creano dei piatti non soltanto per abbellire le tavole, ma anche le pareti delle case signorili, con quelle particolari forme di piatto dal diametro importante che si distinguono fin dall’inizio per i fori di sospensione, che li rendono idonei a essere appesi proprio come dei quadri.

La tela a differenza della ceramica, per diventare scultorea ha bisogno di sollecitazioni che ne modifichino profondamente la superficie. In questo senso, i rilievi di Castellani e gli squarci di Fontana hanno profondamente stravolto la percezione del quadro quale era prima di loro. Stravolgimenti simili sono riusciti ad ottenere entrambi anche nella ceramica, sfruttando la duttilità e la malleabilità di una materia fatta apposta per serbare memoria, fissando le forme e i colori.

Castellani dunque, complice il fuoco, ha attuato una vera e propria metamorfosi della sua opera su tela, modificandola nella sostanza ma non nella forma, grazie ad una trasmutazione per cottura che rappresenta una delle peculiarità più potenti e misteriose della tecnica ceramica.

– Paolo Nardon –