Riflessi. Doppia Coppia

“Gli specchi farebbero bene a riflettere prima di riflettere le immagini”
J. Cocteau

Sarebbe meglio che gli specchi non si riflettessero tra loro, in quanto, come scrive Borges, “gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.” È sufficiente infatti che due specchi si fronteggino per formare un accavallarsi di riflessi, in cui le immagini si ripetono senza fine. Un labirinto.
La cosa seduce e impaurisce. La fisica però è clemente e placa le nostre inquietudini postulando l’impossibilità dello specchio di riflettere la luce al 100%. Questa incapacità di una perfetta riflessione impedirà la creazione di labirinti e pensieri perfetti. Anche l’immaginazione, per quanto libera e potente, sarà limitata, poiché ogni nostro pensiero, anche il più limpido e definito, nel suo riflettere su se stesso è come uno specchio che non può riflettere tutto.

D’Alembert, l’enciclopedista, a tale proposito osservava che “gli oggetti dei quali la nostra mente si occupa sono spirituali o materiali, e la nostra mente se ne occupa mediante idee dirette o idee riflesse”; e precisava che le prime sono il prodotto di un rapporto diretto (della mente) con il mondo circostante, mentre le idee riflesse derivano dall’elaborazione delle primitive percezioni e rappresentano uno stadio successivo della conoscenza.

Ebbene, per il sapere sono necessarie le idee riflesse perché la riflessione produce sempre visioni molteplici, come quando intrappolati tra due specchi ci sembra di essere presi tra due fuochi.
Fortunatamente, nessuno specchio è perfetto e nemmeno la riflessione può esserlo. Forse è proprio accettando i limiti degli specchi e della mente che si sono formate la co-scienza e la consapevolezza di sé, che ci servono per stare al mondo.
Eppure, nonostante questo desiderio di oggettività, continuiamo a lasciarci sedurre dagli specchi antichi che, col tempo, sono diventati talmente opachi da non riflettere più niente.

Le nostre riflessioni invece si chiamano così perché le idee prendono forma nel momento in cui la nostra immaginazione crea immagini e pensieri che l’occhio della mente coglie di riflesso in quello specchio interiore che, per semplicità, chiameremo coscienza. Qualcosa di simile accade nell’atto di creazione, quando un pittore, ad esempio, attraverso le mani e il pennello, riesce a far sì che la sua immaginazione prenda corpo nell’opera, materializzando il riflesso di un atto immaginativo in una cosa.

Il quadro nasce così. È una riflessione imprigionata sulla tela parzialmente liberata dagli sguardi di spettatori che sono attratti, perlopiù inconsapevolmente, dal pericolo di una superficie concreta solo in parte. Lo sapeva bene Narciso: chiunque si avventura sotto la superficie deve sapere che la profondità è pericolosa e talvolta letale.

Per motivi analoghi i ritratti e gli autoritratti sono pericolosi. Chiunque guardi agli occhi senza fondo del ritratto, mentre ricambia il suo sguardo in una muta riflessione, si trova in pericolo. Ciò non vale solo per il figurativo, giacché anche i quadri astratti che riflettono forme concrete su una superficie increspata sono ugualmente pericolosi, più simili a delle sabbie mobili che a una immota fonte cristallina.
A ogni nuovo sguardo, uno sprofondare, che produce stupore e riflessi sconosciuti.

Nessuna immagine, infatti, nemmeno quella riprodotta serialmente dalla fotografia, si sottrae al riflesso dell’altrove. Rimanda a un uguale che non è più soggetto ma immagine; così, ogni sguardo è nuovo e si apre a una differenza interminabile. Questo è ciò che rende l’opera d’arte eterna, capace di riflessi sempre nuovi; in modo analogo, “lo stesso” si apre all’interpretazione riverberando di affinità che
“(…) non appartengono al regno della somiglianza o dell’equivalenza perché come non c’è sostituzione possibile tra i veri gemelli, così non c’è possibilità di scambiare la propria anima”.

Ripetere è dunque produrre altro, un nuovo riverberare della cosa che, nel suo rinnovarsi, prende tempo. Ogni ripetizione differente è difficile da realizzare, riecheggia mancanze e indecisioni; lo sa bene chi tenta di compiere lo stesso gesto, di riscrivere le stesse parole o di rifare lo stesso quadro. Per questo motivo, trovarsi di fronte a una doppia coppia di quadri quasi uguali è un evento raro e quasi magico, come accade in questa rarefatta esposizione.

Qui le opere gemelle sono riflessi imprecisi l’una dell’altra. Jannis Kounellis e Hidetoshi Nagasawa ci regalano ciascuno due opere speculari. Quelle di Nagasawa sono geometrie che mostrano la segreta ambizione di diventare tridimensionali e plastiche, mentre Kounellis vorrebbe rendere un icastico muro stilizzato il riflesso artistico di un vero muro, altrettanto presente. Nel rispecchiamento imperfetto di queste opere tanto simili, a due a due, rintracciamo, nonostante una nostra specie di indecisione nel vedere, il loro richiamo muto, quella vibrazione segreta che evoca un presentimento e uno smarrimento, sorgenti di ogni piacere prodotto dall’arte.

– Paolo Nardon –